Diagonale dai romanzi di delillo alle tesi di virilio…

La Stampa (Italia)
July 10, 2004

DIAGONALE DAI ROMANZI DI DELILLO ALLE TESI DI VIRILIO: LE CATASTROFI
COME VERA ESSENZA DEL MONDO Domani e’ un altro DISASTRO

Belpoliti Marco

Marco Belpoliti ASSEMBLAGGI di parti di aeroplano sospese in modo
caotico al soffitto da Nancy Rubins; la ripresa dello skyline di New
York, lunga ventiquattro ore, girata dal video-artista Wolfgang
Staehle e registrata casualmente il giorno della caduta delle Twin
Towers; il catalogo dei lanci spaziali sovietici, compresi quelli
falliti, realizzato dall’artista armeno Artavazd Achotowitch
Pelechian: queste e altre immagini di eventi catastrofici della
nostra epoca erano esposte qualche tempo fa alla Fondation Cartier di
Parigi. La mostra era curata dall’architetto e filosofo della
contemporaneita’ Paul Virilio. Il catalogo, intitolato Ce qui arrive
e edito da Actes Sud (pp. 226, e45), con un lungo scritto
introduttivo del curatore, contiene una sequenza impressionante
d’immagini di eventi traumatici: terremoti, incendi, incidenti aerei,
emissioni di gas venefici, crateri provocati da meteoriti,
esperimenti nucleari, naufragi, inquinamenti marini, allagamenti di
citta’ e campagne, crolli di ponti, esplosioni di navicelle spaziali,
treni deragliati, palazzi accartocciati, fino ad arrivare alla scena
della esplosione delle Torri gemelle che e’ la catastrofe con cui si
e’ aperto il nuovo millennio, l’evento degli eventi o, come lo ha
definito Jean Baudrillard, l’evento che ha posto fine “”allo sciopero
degli eventi” ” cui ci avevano abituato gli anni Novanta.

L’esposizione, che ha avuto un notevole eco anche per via della
proposta avanzata da Virilio di istituire un “”Muse’e des
accidentes””, seguiva di poco la pubblicazione di un libro in cui il
filosofo compendiava le sue idee sul tema: L’incidente del futuro
(tradotto da Cortina editore). La tesi di Virilio e’ che il futuro,
cosi’ come e’ stato concepito negli ultimi due secoli e mezzo –
attesa e orizzonte del cambiamento e del progresso – non c’e’ piu’,
sostituito da una serie di eventi che culminano con l’incidente, in
cui l’accadimento naturale (terremoto, tromba d’aria, nubifragio
ecc.) e’ oramai superato da quello artificiale prodotto dall’uomo
stesso. L’incidente e’ in tutto e per tutto un effetto della
tecnologia: l’evento del volo dell’aeromobile, scrive Virilio,
comprende anche quello della sua caduta, come la costruzione
dell’automobile quella dello scontro.

L’idea di Virilio e’ filosofica; egli si richiama ad Aristotele, alla
distinzione tra sostanza, ovvero l’assoluto, e accidente, ovvero cio’
che e’ contingente e relativo. Per farsi capire, in una intervista,
Virilio paragona l’assoluto alla montagna e il terremoto
all’accidente: l’accidente e’ ce qui arrive. Tuttavia quello che
accade ogni giorno, che accade a ciascuno di noi, e’ propriamente la
vita stessa, che e’ poi il tempo che passa. Per il filosofo francese
lavorare sul concetto di incidente-accidente significa lavorare sul
tempo; egli cita una frase di Aristotele secondo cui il tempo sarebbe
l’incidente degli incidenti. Dal momento in cui la velocita’ ha
trasformato radicalmente la vita umana, attraverso l’introduzione dei
veicoli a motore e l’epoca dei rapidi spostamenti, di cui
l’informatica non e’ che la prosecuzione, l’iper-rapidita’, afferma
Virilio, produce anche gli incidenti sino a farli diventare uno degli
eventi consueti della contemporaneita’.

Oggi noi non andiamo dal passato al futuro transitando per il
presente, bensi’ ci muoviamo da incidente in incidente, tanto che il
futuro stesso ci appare sotto questa forma, che paventiamo ma che
insieme, piu’ o meno consapevolmente, auspichiamo. Se ogni giorno i
telegiornali non ci forniscono immagini di eventi disastrosi, di
piccole o grandi catastrofi, ci sembra che non sia accaduto nulla,
che il tempo sia transitato inutilmente: viviamo immersi nel racconto
del disastro. Nonostante l’enfasi che sembra contenere questa
posizione, la lettura che Virilio da’ del presente non e’ di tipo
apocalittico; o meglio: la sua e’ una apocalisse continua, in cui
l’incidente, all’interno dell’accelerazione del mondo, dei suoi
oggetti e dei suoi abitanti, appare come il modo stesso attraverso
cui si mostrano le relazioni tra i fenomeni, ovvero tra le cose che
accadono nel mondo.

Il disastro sarebbe cosi’ la vera essenza del mondo: l’inondazione
rivelerebbe la realta’ dell’acqua cosi’ come il terremoto quella
della terra, il black out quella dell’energia elettrica e il
surriscaldamento repentino di una centrale nucleare la forza della
fissione dell’atomo.

Si tratta di un vero e proprio rovesciamento della prospettiva
consueta per cui siamo soliti pensare l’incidente come l’eccezione,
mentre il “”controllo”” del mondo, la sua regolarita’, ci appare una
norma. Virilio e’ un tardo umanista che ribaltando il rapporto tra
norma e eccezione fa della catastrofe quotidiana la realta’ su cui si
fonda l’esistenza stessa degli uomini e delle loro citta’; il suo e’
un rovesciamento e non una messa in discussione dei paradigmi
aristotelici. Nel suo recente libro Citta’ panico (ed. Cortina, tr.
it. di L.

Odello, pp. 129, e9,80) Virilio riprende e ribadisce questi temi
trattando della citta’, o meglio della metropoli contemporanea.
Partendo da una frase di Le Corbusier pronunciata dinanzi al panorama
di New York (“”E’ un cataclisma al rallentatore!””) il filosofo
ripercorre il trauma dell’11 settembre e ne fornisce una lettura
coerente: creare un evento – parola chiave in ogni settore della vita
pubblica – significa provocare un incidente. Come e’ noto il
musicista tedesco Karlheinz Stockhausen, all’indomani dell’attentato
al World Trade Center, ha scritto, con grande scandalo di molti, che
si e’ trattato della piu’ grande opera d’arte mai realizzata. Virilio
parla del crollo delle Torri in termini analoghi, come di un gesto
espressionistico che mette i terroristi sullo stesso piano degli
artisti e di tutti gli attivisti contemporanei dell’epoca della
globalizzazione planetaria. E’ quanto Don DeLillo aveva preconizzato
nel suo romanzo Mao II (Einaudi, 1991), incentrato sulla figura di un
celebre scrittore che vive nascosto, che parte all’improvviso per
Beirut allo scopo di salvare un collega dalle mani dei terroristi che
lo hanno sequestrato. In questo romanzo visionario, ma al tempo
stesso fortemente realista, DeLillo paragona l’attivita’ del
romanziere a quella del terrorista e arriva alla conclusione che
l’atto terroristico ha sottratto a quello della scrittura la sua
forza d’impatto, la capacita’ di influire sugli eventi, divenendo
l’unico modo per plasmare la realta’.

Virilio conferma questa diagnosi, ma afferma che negli ultimi
vent’anni le cose sono andate ancora piu’ avanti, dal momento che il
terrorismo non e’ piu’ solo quello delle bombe e degli attentati
suicidi ma quello prodotto dal sistema dell’informazione come
dimostrano le barbare uccisioni mediatiche degli ostaggi in Iraq.
Egli scrive che oggi assistiamo non piu’ solo all’accelerazione della
storia, ma anche all’accelerazione della realta’ stessa: “”le nostre
scoperte tecnologiche si rivoltano contro di noi e in certe menti
deliranti tentano di provocare a ogni costo l’incidente del reale,
questo urto che renderebbe indiscernibili verita’ e realta’ fallaci –
in altre parole mettendo in opera l’arsenale completo della
derealizzazione””.

Di cosa si tratta? Del superamento della distinzione tra vero e
falso, giusto e ingiusto, reale e virtuale. Dopo l’abbattimento delle
Torri, grazie al concorso congiunto di terroristi e governanti si
sarebbe rotto lo specchio della realta’, provocando la “”confusione
fatale del linguaggio, come delle immagini””. Virilio sostiene che il
baricentro della nuova esperienza del panico e’ oggi la metropoli, la
piu’ grande catastrofe del ventesimo secolo: “”New York dopo il
crollo del World Trade Center, Baghdad dopo la caduta di Saddam
Hussein, Gerusalemme e il “muro di separazione”, ma anche Hong Kong o
Pechino, o gli abitanti dei villaggi intorno che barricano i loro
borghi davanti alle minacce della pneumopatia atipica… Tanti nomi
su una lista di agglomerati urbani pronta ad allungarsi
indefinitivamente””.

Nel 1984 Don DeLillo intitolo’ un suo romanzo Rumore bianco
(Einaudi).

Vi racconta la storia di un professore, pacioso e a tratti imbranato,
che ha fondato in una piccola universita’ americana un centro di
studi hitleriani; intorno a lui la famiglia allargata, la terza
moglie e i figli di entrambi.

La sua e’ una tipica vita americana in cui apparentemente non accade
nulla, fino a che, a causa di uno scontro ferroviario, da una
cisterna fuoriesce un micidiale veleno per topi che si leva in cielo
sotto forma di una nube nera.

E’ il racconto del disastro, in cui all’imperturbabilita’ dei
protagonisti si accompagnano i rituali acquisti al supermarket e del
tran tran della vita quotidiana. La moglie del professore,
terrorizzata dall’idea di dover morire, di nascosto da tutti ha
accettato di ingerire uno psicofarmaco sperimentale che cancella dal
cervello il suo terrore. Il “”rumore bianco”” e’ quel rumore
impercettibile in cui viviamo immersi, in cui non cogliamo piu’ i
piccoli e grandi disastri che accadono intorno a noi,
dall’inquinamento delle polveri sottili all’alterazione del cibo,
dalle morti silenziose per cancro agli scontri automobilistici, lo
stillicidio di esplosioni in ogni angolo del mondo che accompagna
come un sottofondo la colonna sonora delle nostre giornate. In un
paesaggio cosi’ straordinariamente descritto da DeLillo l’enfasi di
Paul Virilio, la sua teoria dell’incidente, finisce per risultare
poco piu’ di un colpo di clacson nel gorgo del traffico del lunedi’
mattina.