Il Ricordo Del "Grande Male"

IL RICORDO DEL "GRANDE MALE"
Sonya Orfalian

La voce di Romagna
23 aprile 2010

Domani ricorre il Metz Yeghern: memorie da un genocidio

Era il 24 aprile del 1915 quando il governo dei Giovani Turchi diede
ordine di arrestare tutti i circa duecentocinquanta intellettuali e
notabili armeni di Istanbul, eliminando in tal modo i referenti civili
e religiosi della grande comunita armena della citta. Quello stesso
giorno il governo ordinò il massacro di tutti gli armeni residenti
in citta: l’ordine venne eseguito di lì a poco, e le vie di Istanbul
ben presto si riempirono di cadaveri e di sangue.

Questa data che ricorda l’inizio del primo genocidio del Novecento,
viene ormai per tradizione assunta simbolicamente come giorno della
memoria di quel crimine contro l’umanita. Ecco perchè il 24 aprile
di ogni anno in tutte le comunita armene sparse nel mondo, così come
anche nella Repubblica d’Armenia, si commemora quel Metz Yeghern (il
"Grande Male": così gli armeni chiamano il loro genocidio) che tra
il 1915 e il 1923 ha provocato un milione e mezzo di morti ammazzati,
la distruzione di un intero popolo innocente.

Novantacinque anni separano dunque questo 24 aprile 2010 dall’inizio di
quei terribili fatti, e mentre gli armeni tutti ricorderanno la loro
tragedia, contemporaneamente scattera ancora una volta inesorabile
il riflesso negazionista degli eredi di chi quel crimine commise:
il governo turco di oggi, conformandosi all’atteggiamento di tutti i
precedenti governi, neghera l’accaduto anche questa volta, secondo
tradizione. Come un orologio le cui lancette non riescano mai a
sovrapporsi, il tempo passera anche stavolta segnando due orari
diversi.

Se cercate nei testi il termine "genocidio" troverete diverse
informazioni interessanti. Il dizionario etimologico ad esempio vi
spieghera che il vocabolo deriva dal greco genos (stirpe) e dal latino
-caedere (tagliare a pezzi): due grandi culture mediterranee dunque
contengono e danno forma a questa parola. Altri testi ci ricorderanno
che è stato un ebreo a inventare il termine, praticamente a tavolino:
Lemkin, questo il suo nome, scelse quello che gli sembrò più adatto
a indicare la Shoah, e da quel momento il destino della parola
"genocidio" sara segnato per sempre. Altri ancora racconteranno che
il termine si deve allo svizzero Zurlinden, che alla fine della Prima
Guerra Mondiale parlera per primo di Volkermord riferendosi proprio
al genocidio degli armeni.

Chiusi i libri, tuttavia, molte altre cose restano fuori. Non possiamo
liquidare con una semplice parola la sofferenza spesso inenarrabile
di chi ha vissuto l’esperienza dei tanti massacri che, sommati l’uno
all’altro, hanno dato luogo a questo genocidio; e poi lo sperdimento
dei sopravvissuti, spesso bambini e donne sole e disperate.

Cancellare una razza programmando sistematicamente e nei minimi
dettagli le modalita di procedimento, non è forse una tattica di
combattimento in una guerra dichiarata unilateralmente? Come si
fa a fare una guerra senza dichiararla? In questo caso lo si fa
nascondendosi dietro un’altra guerra: la Prima Guerra Mondiale che
vide la Turchia alleata della Germania. Una guerra nella guerra,
quindi, fatta di imboscate, usando soldati regolari accanto ad altri
scovati nelle galere e liberati di proposito, e il cui compenso furono
le terre, i beni e le donne armene coi loro piccoli.

Cosa significa non dichiarare una guerra? Significa non dover mai
firmare una pace o una tregua. Significa che quando tutto si conclude –
in questo caso la mattanza degli innocenti – nessuno può rivendicare
nulla. Significa non considerare i morti come persone uccise in
un conflitto.

Significa non aver concesso ai soldati l’onore di combattere la loro
guerra, non aver dato l’opportunita alle donne di piangere la partenza
dei propri uomini. Significa non dare nessuna speranza di ritorno.

Nella nostra strana guerra i maschi (i padri, i fratelli, i mariti,
i nonni) venivano uccisi il più delle volte davanti alle loro mogli,
sorelle, figlie e madri, nelle proprie case, nella propria citta e
non in un fronte lontano. Non dichiarare la guerra è servito anche
a non concluderla mai, questa guerra. La negazione del genocidio
significa voler mantenere aperto il fronte, significa che quella
guerra è ancora in atto, una guerra che continua. Hrant Dink, il
giornalista e scrittore armeno di Turchia assassinato a Istanbul nel
2007 davanti alla sede del suo giornale Agos, è a tutti gli effetti
vittima di quella guerra non conclusa che lascia ancora una volta le
donne e i bambini (questa volta i suoi) da soli davanti allo sgomento
di una perdita violenta, improvvisa, immotivata.

I governanti turchi di oggi – ciechi, muti e sordi come tutti i
loro predecessori – continuano a negare ai figli dei sopravvissuti
un diritto civile elementare, il diritto alla verita: è questo che
noi armeni chiediamo, nella speranza di vedere un giorno le lancette
dell’orologio della storia segnare una sola ora, quella giusta.