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San Lazzaro, trecento anni di cultura armena

la Nuova di Venezia– Italia
20 set 2017


Prima fu lebbrosario, poi l’abbandono. Sbocciò in tutta la sua bellezza con Mechitar nel 1717, oggi i monaci tramandano il messaggio del fondatore di Vera Mantengoli

VENEZIA. L’Isola degli Armeni festeggia i suoi primi trecento anni. Èra infatti l’8 settembre 1717 quando il monaco Mechitar, dopo essersi guadagnato la stima del futuro doge Alvise Mocenigo, ricevette in concessione l’isola di San Lazzaro, usata in passato come lebbrosario e poi abbandonata. Sono passati 300 anni e l’isola non ha mai perso il ruolo di punto di riferimento della cultura armena grazie ai monaci mechitaristi, che da secoli tramandano il messaggio del fondatore.


Prima degli armeni. Le notizie che si hanno dell’Isola di San Lazzaro risalgono all’810, quando è sede dell’ordine dei benedettini. Nel 1182 si edifica un ospizio per pellegrini e una chiesa dedicata a San Leone Magno.

Un secolo dopo, nel 1262, il Senato decide di farci un lebbrosario che rimane fino al 1348 quando si iniziano dei lavori di restauro e l’isola passa sotto la giurisdizione di San Pietro di Castello.

Diminuiti i lebbrosi, l’isola diventa un luogo per accogliere i poveri. Per qualche decennio, dal 1645 al 1678, l’isola viene occupata dai domenicani che fuggono da Creta occupata dai turchi. Per un periodo qui si fabbricano armi per sostenere la guerra in Morea.

Dal 1696 è usata per coltivare orti, ma lentamente viene abbandonata, per poi sbocciare in tutta la sua bellezza con l’arrivo di Mechitar.

La visione di Mechitar. Una breve apparizione della Vergine Maria, della quale si festeggia la Natività, irrompe nella vita del sedicenne Mechitar, orientandone il successivo percorso.

Negli anni il sogno di un ordine monastico dedito all’elevazione spirituale e culturale del popolo armeno porta Mechitar, nato nel 1676 a Sabaste degli Armeni, a fuggire dall’Anatolia alla Morea, per poi trovare rifugio a Venezia.

Il monaco fonda la sua congregazione a Costantinopoli nel 1700, ma poi fugge arrivando a Modone, nella Morea greca governata dalla Serenissima. Nel 1712 la flotta ottomana sbarca nella penisola, costringendo Mechitar e i suoi monaci a fuggire a Venezia, dove c’è già una consolidata comunità di armeni a San Martino, in prevalenza mercanti. Essendoci troppe congregazioni religiose a Venezia, un ne decreto vietava l’ammissione di nuove, ma non nelle isole.

Quando Mechitar approda a San Lazzaro ci sono soltanto una chiesetta e un edificio in rovina con qualche stanza, avvolta da sterpaglie. Un rudere, ma per chi come lui ha vagato senza trovare pace, quel fazzoletto di terra è finalmente una casa dove mettere radici.

Grande sognatore, ma provvisto anche di senso pratico, il monaco si rimbocca le maniche e comincia a progettare il monastero. La struttura odierna è ancora quella progettato da Mechitar, rinforzata nelle rive una quindicina di anni fa.

Il regno della cultura. L’isola, settemila metri quadrati di terra, si trova di fronte al Lido (vaporetto 20, fermata dopo San Servolo) ed è composta da un monastero con chiostro e da un giardino ricco di alberi, ulivi, melograni e i celebri roseti per la marmellata di rose realizzata dai monaci.

Le pareti sono coperte da scaffali con 170 mila libri, senza contare la biblioteca speciale finanziata dal benefattore Boghos Ispenian che custodisce 4500 preziosi manoscritti, come Il libro del Venerdì del 1512 e il lavoro di una vita del monaco, il primo dizionario della lingua armena classica, pubblicato pochi giorni dopo la sua morte nel 1749.

L’isola, come dimostrano le decine di lynotipe ancora esposte e utilizzate dal 1789 al 1989, fu sede di una straordinaria stamperia poliglotta in grado di pubblicare in 36 lingue.

Una targa nel cortile ricorda la permanenza nel 1816 di Lord Byron che s’innamorò della cultura armena. Proprio nella stanza di Byron oggi il monastero custodisce una vera e rara mummia, donata nel 1825, rivestita di una reticella ricamata con perline policrome in pasta vitrea.

Nelle sale, una affrescata dal Tiepolo e molte con quadri di Pietro Novelli, sono esposti le più svariate testimonianze e donazioni: dai dipinti del più famoso pittore armeno Ivan Aivazovsky al busto del salvatore delle canzoni tradizionali armene Komitas Vardapet. In alcune teche anche molti scritti del 1915/16.

Nel corso del genocidio morirono sette monaci mechitaristi. «La biblioteca è l’esempio dell’importanza della stampa per Mechitar e per i monaci», spiega Alberto Peratoner, docente della Facoltà teologica del Triveneto e amico della comunità armena, «si vede la cura minuziosa ed estetica del testo, la qualità delle incisioni, la scelta della carta, il risultato era un prodotto di altissima qualità».

Missione: volare. Oggi quelle radici continuano a dare i frutti che Mechitar piantò 300 anni fa. «Continuiamo a essere un ponte tra l’Armenia e la cultura occidentale per poter avere la possibilità di volare, come diceva il fondatore», spiega Padre Serafino, priore dell’isola.

«Mechitar diceva che bisogna avere due ali: una è la Bibbia, la religione e l’altra è la cultura e la scienza».

Lara Chatinian:
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