Roma || Ian Manook è il nome di penna del francese Patrick Manoukian, autore della trilogia di Yeruldelgger. Protagonista è l’omonimo commissario di Ulan Bator, la caotica capitale della Mongolia. Nei suoi romanzi, best-sellers in Francia, pubblicati in Italia da Fazi editore, Manook racconta il paese dei nomadi e dell’ex Unione Sovietica con lo stile di un polar (poliziesco noir). L’ultimo, La morte nomade (2016), conclude le vicende del commissario. “Quando firmo questi libri, la dedica è «le anime nomadi non muoiono mai, diventano leggende erranti»”, ci dice, ed è con questo spirito che ha messo la parola fine alla storia del suo Yeruldelgger, “terminare in un modo che non è una fine, ma una fusione del personaggio col suo paese.”
Yeruldelgger viene descritto da Manook solo attraverso le mani, massicce, antiche come la storia, come Gengis Khan. Il commissario vive tra due epoche: il mondo globalizzato e la tradizione sciamanica dei nomadi. Quest’ultima, ci dice lo scrittore, destinata ad esistere solo come “nomadismo turistico”.
“Io non sono uno scrittore militante”, ci tiene a precisare, “perché nella parola militante c’è militare e non mi va”. Nemmeno naive però: “cerco di dare le parti del mio processo di comprensione”. Dopo l’iniziale fascinazione del viaggiatore – in Mongolia ha accompagnato la figlia per cinque settimane- lo sguardo diventa critico. Nei suoi romanzi parla della “truffa dell’inurbamento”, che spinge i nomadi ad ammassarsi con le proprie Yurta ai margini delle città. Molti sono i riferimenti alla pressione geopolitica della Cina e delle grandi compagnie minerarie. Velatamente, confessa, è anche un modo per parlare della Francia senza doversi schierare politicamente.
Ian Manook cerca di evitare i luoghi comuni, “il mio modo di viaggiare mi protegge da questo tipo di cliché”. Le donne mongole dei suoi romanzi, ad esempio, sono individui forti, descritte con rari dettagli, un po’ come il commissario, eredi del ruolo delle donne nella steppa: “non ci sono personaggi forti se non ci sono personaggi femminili forti.”
Ian Manook ha un po’ di quei tratti del nomade che attribuisce al suo personaggio. Ha 69 anni, ma ne dimostra di meno. Sembra un marinaio: lo zuccotto blu sempre in testa, le spalle imponenti e quelle stesse mani del commissario. È la corporatura di chi a vent’anni, 1969, si pagò il viaggio oltreoceano lavorando sulle navi e attraversò in autostop il Brasile. Proprio durante questi suoi viaggi ha incontrato un uomo dal nome Yeruldelgger.
Questa sua dimensione di viaggiatore lo accompagna ancora oggi e finisce nei suoi romanzi: “a vent’anni si scrive su quello che pensi che il mondo possa essere, a 65 no”, l’oggetto diventa il proprio bagaglio di esperienze. E poi, “io scrivo solamente di paesi in cui mi è piaciuto viaggiare.” Lui rifiuta l’etichetta di scrittore etnografico e preferisce “scrittore nomade”. Ha iniziato a pubblicare a 65 anni e forse per questo ha saputo resistere al fascino del personaggio seriale, chiudendo in trilogia le avventure del suo commissario.
I suoi libri sono stati tradotti in più di dieci lingue, ma ancora non in mongolo. Ian Manook racconta di aver ricevuto commenti positivi dai lettori francofoni della Mongolia, ma si rende comunque conto del rischio di appropriazione culturale. “Posso parlare dell’oriente, ma chiaro, non è l’oriente vero. Non è un romanzo mongolo, però ho scritto un romanzo sulla Mongolia… è un libro scritto da un occidentale sull’oriente, però da un occidentale che sa di star scrivendo sull’oriente.”
“Penso che tutto il mio modo di scrivere sia legato al fatto che io sono figlio di una diaspora… culturalmente, una delle cose più belle”. Da questo deriverebbe la sua capacità di sapersi immergere in altri paesi, pur mantenendo uno spirito critico.
La diaspora di cui parla Ian Manook è quella delle sue origini armene. Sui racconti di sua nonna, sopravvissuta al genocidio come schiava di un ricco turco, sta scrivendo una saga familiare ambientata tra il 1915, anno del massacro, e il presente. Dalla storia vera della sua famiglia, ci anticipa, inventerà una tripla genealogia e la spargerà per il mondo. Non è mai stato in Armenia e ha intenzione di andarci solo dopo aver concluso l’opera, per non rovinare “la mia visione interiore dell’Armenia”.
L’atteggiamento della Turchia sul genocidio armeno lo disturba profondamente: “quel negazionismo è ridicolo… la Turchia è riuscita a negarlo fino alla sparizione degli ultimi testimoni viventi.” Un giorno la Turchia potrebbe anche prendersi le sue responsabilità, “però non saranno più persone, saranno cifre e numeri… La forza della Turchia è distruggere le sue minoranze.” Sui curdi è combattuto, “è molto difficile per me. Muoiono oggi quelli che hanno ucciso gli armeni ieri”, furono infatti soprattutto milizie curde a scortarli nel deserto, “ma muoiono come gli armeni.”
Col suo traduttore, Maurizio Ferrara, il rapporto è privilegiato. “È l’unico che mi chiama per dire «qui non ha senso tradurre così»”, confessa allegramente. Ferrara sta traducendo altri libri di Manook per la Fazi editore, tra cui uno sul viaggiare, Tempo di viaggio, e altri due romanzi gialli di ambientazione brasiliana, tra cui Matto Grosso, già usciti in Francia. Intanto, Manook racconta di aver già firmato per una trilogia poliziesca di ambientazione americana. Tra i progetti dell’autore, è in corso di scrittura anche un giallo di ambientazione islandese. Il protagonista sarà uno scrittore di ritorno in patria, tra le persone che ha sfruttato come personaggi per il suo successo editoriale.
Gabriele Di Donfrancesco