di Marco Vito Limburgo –
Dopo il successo della rivoluzione di velluto, che in modo assolutamente pacifico ha destituito il governo sempre più autoritario di Serzh Sarkissian, è andata consolidarsi la figura dell’ex giornalista riciclato alla politica nonché principale volto e ideatore delle proteste, Nikol Pashinyan. Divenuto primo ministro dopo le dimissioni forzate del predecessore si è ritrovato con il pesante fardello di parlamento quasi completamente egemonizzato dai partiti avversi (forte era la compagine di deputati della forza politica precedentemente al potere, il Partito Repubblicano) e quindi non ha destato scalpore la decisione del primo ministro di rassegnare le dimissioni e convocare nuove elezioni, sfruttando il successo di risultati ampiamente positivi a livello locale, capitalizzando il prestigio al fine di ottenere una forte maggioranza parlamentare.
Come largamente previsto il partito di Pashinyan, l’”Alleanza Il mio passo”, ha ottenuto una forte vittoria elettorale che con il 70% di voti lascia bene poco spazio alle rimostranze degli oppositori. Quasi completamente cancellato il residuo supporto al Partito Repubblicano che con il 4,70% dei voti rischia di andare in contro a una quasi scontata dissoluzione. A entrare in parlamento, superando la soglia di sbarramento del 5%, solo i conservatori filorussi di “Armenia Prospera” e i liberali pro-Europa di “Armenia luminosa” con rispettivamente l’8,27% e il 6,37%. Restano fuori dai giochi anche i nazionalisti di Sasna Tsrer (protagonisti in negativo della crisi degli ostaggi del 2016 a Yerevan) e la Federazione Rivoluzionaria Armena, storico partito socialista fra i più antiche del paese.
L’affluenza al 49% è stata criticata dagli oppositori come segno della pesante disaffezione dell’opinione pubblica ma è dato ingannevole: nel processo di voto in Armenia si contano anche i cittadini presenti all’estero (la diaspora è sempre stata una componente fondamentale della vita sociale, culturale ed economica della nazione) che per difficoltà e cattiva gestione non sempre riescono attivamente esprimere la propria preferenza nonché le croniche difficoltà nella mobilitazione dei cittadini rurali (carenza di autobus e servizi). Un affluenza che più pragmaticamente si attesta, quindi, intorno al 62%. Gli osservatori delle organizzazioni internazionali non hanno riscontrato palesi irregolarità o pressioni e quindi abbiamo potuto assistere a un processo elettorale trasparente, partecipato e con un risultato ampiamente previsto.
Non sono certo mancate le rimostranze da parte dei partiti sconfitti che hanno denunciato un pesante clima intimidatorio frutto dell’afflato rivoluzionario che tutt’ora pervade la nazione ma il risultato deludente dei repubblicani e di altri partiti considerati establishment non può che essere causato dalle cattive politiche passate che hanno reso il sistema politico armeno fra i più corrotti, nepotisti e clientelari nel Caucaso. Pashinyan ha impegnato notevoli energie personali nella campagna elettorale che lo ha visto organizzare raduni di piazza, tour in ogni angolo del paese e massiccio utilizzo dei social media mentre gli avversari han preferito un approccio più remissivo, sponsorizzando la protezione dei valori tradizionali messi in pericolo da un governo potenzialmente vicino all’Europa o paventando una vittoria troppo larga della compagine “Il mio Passo” che potrebbe trasformare il paese in un’autocrazia a partito unico come nel caso del vicino Azerbaijan. Il controllo quasi totale del parlamento lascerà mano libera alla coalizione del primo ministro ma forse è proprio il clima di grande fiducia e le aspettative che potrebbe maggiormente danneggiare la futura tenuta del governo.
Le sfide che il paese si appresta ad affrontare, dalla politica interna a quella estera, sono relativamente ampie e la necessità di riforme strutturali richiederà dei sacrifici che la già provata popolazione potrebbe dimostrarsi incapace di affrontare e sopportare. Se il vangelo rottamatore di Pashinyan ha sedotto una grande maggioranza trasversale dei cittadini armeni, le politiche realiste e le congiunture internazionali rischiando di diffondere disillusione generale che potrebbe scavare un solco profondo fra cittadinanza e politica aprendo la strada a pericolose derive estremiste o autoritarie.
Erevan. (Foto: Notizie Geopolitiche / EO),
Una revisione dell’apparato economico deve essere la necessaria priorità del governo; tamponare la proibitiva situazione del deficit di 34,8 miliardi di dram, lotta alla corruzione diffusa, creazione di posti di lavoro nei servizi, diversificazione dell’economia troppo dipendente dall’import-export russo o dalle rimesse dei 6 milioni di immigrati (di questi due lavorano principalmente nelle grandi città russe), attrarre investimenti dai progetti di collaborazione in costante crescita con l’Unione Europea e in ultimo ma non meno importante contrastare il potere economico e di conseguenza politico degli oligarchi legati al vecchio governo con interessi ramificati principalmente nelle province. Contro questi oligarchi si è espresso più volte e con asprezza lo stesso Pashinyan: “Mi riferisco a quei sindaci e amministratori di villaggi: sappiate che personalmente vi verrò a trovare, vi prenderò per la gola e vi butterò fuori dai vostri uffici”. Non dovete camminare nelle strade del paese. Il vostro posto è in prigione e voi tutti, criminali, saccheggiatori e canaglie, ci finirete”. Ma ancora scarse e insufficienti appaiono le misure prese fin ora. Non sarà l’economia l’unico argomento che agiterà il dibattito interno nei prossimi anni ma anche il fortissimo tasso di emigrazione che non accenna a diminuire, complice la fuga di laureati, imprenditori o semplici lavoratori manuali, privando il paese di necessari capitali umani, la crisi demografica sempre più drammatica e l’invecchiamento della popolazione che renderà necessarie nuove e più stringenti leggi in campo pensionistico. L’approvazione nel giugno scorso di una contestata riforma pensionistica avviata quattro anni prima che ha in parte privatizzato un sistema asfittico e non funzionale (280.000 lavoratori nati dopo il 1973 verranno tutelati da fondi pensioni in mano a società europee) ha causato dei malumori e timide reazioni di insoddisfazione anche nella compagine fedele alla linea politica del primo ministro.
Se la politica interna sembra promettere grossi grattacapi al futuro governo del paese la priorità rimane, in una piccola nazione incastonata tra due mortali nemici e ponte fra Caucaso e Medio Oriente, la politica estera. Tralasciando la travagliata ma indispensabile relazione con la Russia, le relazioni con tre paesi costituiscono la priorità dell’agenda politica governativa: Azerbaijan, Turchia e Iran.
Nikol Pashinyan.
Risale al 7 dicembre scorso l’ultimo incontro fra il “presidente” azero Ilham Aliyev e Nikol Pashinyan nel corso dei lavori dell’ultimo summit informale della Comunità degli Stati Indipendenti. I due capi di stato concordano sulla congiuntura positiva delle relazioni bilaterali fra i due paesi e sul prolungamento dello status quo e relativo clima di pace che si registra lungo il confine tra Yerevan, la repubblica non riconosciuta del Nagorno Karabakh e Baku, senza però compiere dei necessari passi avanti per la risoluzione della crisi. Quello in corso nella regione non è altro che l’ennesimo conflitto congelato retaggio dell’epoca sovietica che contrappone una regione etnicamente armena al governo centrale azero che ne pretende la sovranità che ad oggi è cogestita da Armenia e Karabakh in un contesto di parziale autonomia e legittimità.
Il conflitto del 1992 ha lasciato in eredità oltre che un continuo stato di insicurezza, vari sono stati gli sconfinamenti reciproci, i bombardamenti al confine e gli atti intimidatori, un pesante sentimento di reciproca animosità trasversale nei due paesi che rende difficile far avanzare un progetto realistico di risoluzione definitiva del conflitto. In questo frangente le opinioni pubbliche polarizzate, il clima di odio e la strumentalizzazione politica dettano la policy di entrambi i governi che sembrano cosi preferire un precario status quo a dolorose amputazioni di territorio foriere di pesanti ripercussioni a livello elettorale.
La figura stessa e il passato del primo ministro armeno fanno sperare ben poco gli analisti su futuri colpi di scena e lasciano ben poco spazio all’ottimismo. Uno dei figli di Pashinyan ha partecipato in passato ad operazioni militari nella repubblica contesa e il primo ministro stesso non ha lesinato dichiarazioni di fuoco e aperto sostegno alla linea dura ampiamente condivisa nel paese. “Il Karabakh non deve far parte dell’Azerbaijan”, ha dichiarato in un recente discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Uniti denunciando l’intenzione della leadership azera di attuare una pulizia etnica non dissimile a quella operata nel Naxcivan (exclave azera confinante con Yerevan) spiegando cosi l’impossibilità di cedere senza negoziati la repubblica a Baku non prima di reciproci compromessi e in un atmosfera di collaborazione e fiducia reciproca. Dichiarazioni forti non dissimili a quelle del presidente azero Aliyev in grado di rassicurare l’opinione pubblica armena e gli influenti apparati militari vicini ai destini di Stepanakert (capitale del Nagorno Karabakh) ma che allontanano ogni possibile speranza di distensione.
(Foto Notizie Geopolitiche / GB).
A pesare sulle relazioni con la Turchia resta sicuramente il nodo centrale del genocidio armeno, tragedia nazionale e elemento fondante nella formazione della nazione nonché la chiusura totale della frontiera Yerevan – Ankara: la Turchia infatti non solo non riconosce ad oggi il genocidio compiuto dai Giovani Turchi nel 1915-1917 ma continua a sponsorizzare un nazionalismo panturco (solidale all’alleato azero) negando e riscrivendo la storia in maniera distorta. Nel novembre 2018 Pashinyan ha ribadito che l’Armenia è pronta a normalizzare le sue relazioni con la Turchia senza condizioni preliminari ma ha affermato che il riconoscimento del genocidio non è “una questione di relazioni armeno-turche”, ma è “una questione di sicurezza per noi e una questione di sicurezza internazionale, ed è il nostro contributo al movimento e al processo di prevenzione del genocidio”. La Turchia per il nuovo primo ministro armeno deve fare i conti con il suo sanguinoso passato ma la normalizzazione delle relazioni bilaterali continua ad essere per Ankara una mossa politica rischiosa attualmente impossibile da implementare nonostante le pressioni degli Stati Uniti, a loro volta pressati dall’influente a Washington lobby armeno americana.
Veduta di Erevan. (Foto: Notizie Geopolitiche / EO).
Stringere e rafforzare la cooperazione con la repubblica islamica d’Iran rappresenta una scelta obbligata per sfuggire all’accerchiamento turco-azero e alla dipendenza della Russia ma rischia di danneggiare le già tese relazioni con gli Stati Uniti. Uno strano rapporto quello fra Teheran e Yerevan che si nutre delle affinità culturali secolari fra la Persia e il Caucaso e sulla condivisa avversione reciproca nei confronti del panturchismo. L’Iran, a scapito di una cospicua percentuale di cittadini di origine azera (tra il 17 e il 20%), persegue fin dai tempi degli shah un rapporto di fruttuosa cooperazione commerciale e diplomatica con l’Armenia frutto della volontà dei decisori della repubblica islamica di influire maggiormente nel puzzle caucasico e di indebolire l’irredentismo azero. La rivoluzione di velluto ha riacceso le speranze in Rouhani nel ristrutturare e migliorare le relazioni bilaterali danneggiate dalla mancanza di chiara leadership del precedente governo Sargsyan. Il 26 settembre nel corso dell’Assemblea delle Nazioni Unite i leader delle due nazioni si sono incontrati accordandosi sull’ampliamento della zona commerciale di confine di Meghri che oltre che generare necessaria liquidità per entrambe le nazioni schiacciate dalla crisi economica o dalle sanzioni americane, rispettivamente, potrebbe rappresentare uno importante corridoio strategico nell’alveo della difficile relazione fra Iran e Russia. Putin ha più volte espresso il desiderio di voler coinvolgere nell’Unione economica eurasiatica eppure, in passato, è stata proprio la Russia ha sabotare alcune iniziative persiane in Armenia nel campo dell’esportazione di idrocarburi temendo l’eccessiva influenza di Teheran nel piccolo paese caucasico ma il timore dell’offensiva americana che accomuna Russia e Iran rischia di coinvolgere le due nazioni in un potenziale abbraccio euroasiatico che potrebbe strangolare le aspettative decisionali delle élite politiche a Yerevan.
Recepito con timidezza invece il messaggio che Maja Kocijancic, portavoce per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione Europea ha lanciato alla coalizione vincitrice all’indomani dei risultati elettorali: “Siamo ansiosi di lavorare con il nuovo Parlamento democraticamente eletto e il futuro governo per approfondire le nostre relazioni politiche ed economiche sulla base degli impegni congiunti dell’accordo di partenariato globale e rafforzato Ue-Armenia”.
L’Armenia è costretta a giocare un ruolo di primo piano nell’arena geopolitica che ben poco si addice alle sue scarse risorse materiali e umane. Se il nuovo primo ministro sarà in grado di affrontare e vincere le sfide interne e rompere l’accerchiamento lungo le sue frontiere, coltivare alleanze proficui con i partner di sempre tessendo al contempo nuove relazioni con attori emergenti (Cina, Asia, Europa) dipenderà dalla volontà del popolo armeno di compiere sforzi titanici che potrebbero cambiare il destino della nazione.