Avvenire, Italia
Mercoledi 01 dicembre 2004
TRANSIZIONE TEMPESTOSA
L’ex impero
Dalle ceneri dell’Urss la nuova mappa degli Stati «inquieti»
Molti Paesi retti da leader legati alle vecchie nomenklature
comuniste. Il nodo delle minoranze russe
Da Mosca Giovanni Bensi
C’era una volta l’impero. È una transizione tempestosa e
contraddittoria, quella che ha fatto seguito alla morte dell’orso
sovietico. L’8 dicembre 1991 i presidenti delle tre repubbliche slave
dell’Urss – Boris Eltsin per la Russia, Leonid Kravchuk per l’Ucraina
e Stanislav Shushkevich per la Belorussia, riuniti presso Minsk –
decretarono la fine dell’Unione Sovietica e la sua sostituzione con
un’entità chiamata “Comunità degli Stati Indipendenti” (Csi). Qualche
tempo dopo ad essa aderirono anche altre 12 repubbliche, tranne le
tre baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania). Presidente della Csi
venne eletto Eltsin e, dopo un «interregno» di Leonid Kuchma,
successore di Kravchuk a capo dell’Ucraina, oggi il presidente è di
nuovo il russo Vladimir Putin. Russia e Belorussia ad un certo punto
hanno deciso di iniziare un processo di riunificazione che procede a
rilento e senza molto entusiasmo.
Le repubbliche baltiche sono ora membri della Nato e dell’Unione
Europea. Lettonia e Lituania hanno come presidenti ex emigrati
politici che hanno trascorso decenni negli Usa: Vaira Vike-Freiberga
e Valdas Adamkus. Ma anche qui, come in quasi tutte le repubbliche ex
sovietiche, sopravvivono politicamente ex esponenti del regime. In
Lituania, per esempio, il primo ministro Algirdas Brazauskas, ultimo
capo del Pcus in questa repubblica, coesiste con il presidente
«americano». Lettonia ed Estonia hanno in comune con altre
repubbliche ex sovietiche la presenza di una forte minoranza di
lingua russa (oltre un terzo della popolazione).
La situazione in Ucraina è in questi giorni sotto gli occhi di tutti.
L’attuale presidente uscente è Leonid Kuchma, uomo legato al clan
politico-militare-industriale sovietico di Dnepropetrovsk da cui
proveniva anche l’ex segretario generale del Pcus Leonid Breznev. La
burocrazia già sovietica ha mantenuto nelle sue mani le leve del
potere appoggiandosi sulle strutture della parte orientale del Paese,
più industriale e fil orussa, strutture dalle quali è uscito anche il
candidato «vincente» alle recenti elezioni presidenziali, Viktor
Janukovich.
La Bielorussia è ora governata da Aleksandr Lukashenko, ex capo di un
kolkhoz, che ha stabilito un regime dittatoriale, ha restaurato i
simboli del regime sovietico e istituito «squadroni della morte»
incaricati di eliminare gli oppositori. Recentemente Lukashenko si è
fatto riconfermare alla presidenza con elezioni di dubbia legittimità
dalle quali erano stati praticamente estromessi gli oppositori.
Inoltre con un referendum ha modificato la Costituzione attribuendosi
il diritto di ripresentare la sua candidatura alla presidenza per una
terza volta. I bielorussi sono di fatto tutti bilingui, il bielorusso
è una lingua di scarse tradizioni culturali e fortemente influenzata
dal polacco. Il paese attraversa una crisi di identità che favorisce
il riavvicinamento alla Russia.
Fra Ucraina e Romania è inserita la Moldavia. I moldavi parlano
romeno (ma Stalin aveva imposto l’uso dell’alfabeto cirillico). Dopo
la caduta dell’Urss si era posto il problema di un’annessione alla
Romania, poi risolto negativamente. Negli anni ’90 la regione moldava
della Transnistria, abitata in prevalenza da russi, ha proclamato la
secessione con l’appoggio di Mosca.
Il Caucaso è la regione ex sovietica più martoriata. Fra Armenia
(cristiana monofisita) e Azerbaigian (musulmano sciita) vi è una
guerra, ora «congelata», per il possesso della regione del Nagorny
Karabakh. In Armenia, Paese con poche risorse economiche, vi è una
situazione di estrema instabilità, malamente gestita dal presidente
Robert Kocharjan. I forti contrasti politici hanno portato ad un
episodio senza precedenti nella Csi: nel 1999 un gruppo di oppositori
assaltò il parlamento provocando una strage. In Georgia l’ex
presidente Eduard Shevardnadze, già ministro degli esteri con
Gorbaciov, aveva instaurato un regime corrotto. Nel novembre
dell’anno scorso, dopo ele zioni truccate, venne cacciato, cedendo il
posto a Mikheil Saakashvili che ha inaugurato una linea decisamente
filo-occidentale. La Russia cerca di disturbare questa linea
appoggiando i movimenti secessionistici di tre regioni georgiane:
l’Abkhazia, l’Adzharia e l’Ossezia del Sud. L’Azerbaigian possiede
ingenti risorse petrolifere che ne fanno l’oggetto dei desideri di
Russia ed Usa, fra le quali è in corso una «guerra fredda» per lo
sfruttamento dei pozzi e per i tracciati degli oleodotti che dovranno
portare il petrolio sui mercati mondiali. Retto dopo la caduta
dell’Urss da Heydar Aliev, ex membro del Politburo sovietico
«convertitosi» all’islam, l’Azerbaigian è ora guidato con sistemi
autoritari dal figlio Ilham Aliev.
Infine vi è il blocco centro-asiatico, formato dalle cinque
repubbliche Kazakhstan, Uzbekistan, Kirghyzstan, Turkmenistan e
Tagikistan, tutte musulmane sunnite e turcofone, tranne l’ultima che
è iranofona, e tutte, tranne una, governate da ex dirigenti
comunisti. Il Kazakhstan è ricco di petrolio e di gas, ed il suo
presidente Nursultan Nazarbaev segue una linea filo-russa.
L’Uzbekistan, la più popolosa delle cinque repubbliche, è retta in
modo autoritario da Islam Karimov. Nel Paese è attivo un forte
movimento islamico fondamentalista che ha più volte organizzato
sanguinosi attentati. Karimov ha concesso agli americani basi
militari durante la guerra contro i taleban afghani. Il Turkmenistan
è governato da un crudele ed eccentrico dittatore, Saparmurad
Nijazov, ora zelante sostenitore dell’islam. Il regime di Nijazov,
che si fa chiamare «Turkmenbashi» («duce dei turkmeni»), è stato
definito «qualcosa a metà fra Stalin e l’ayatollah Khomeini». Il
Turkmenistan è ricco di gas naturale che fa gola a molti. Il
Tagikistan è stato dilaniato dopo lo sfaldamento dell’Urss da una
feroce guerra civile, cessata con l’intervento militare della Russia
in favore del presidente Emomali Rahmonov. Ora la Russia possiede in
Tagikistan una base militare . Rimane la Kirghizia, governata da
Askar Akaev, l’unico leader centro-asiatico senza un passato di
dirigente comunista. Fra le repubbliche centro-asiatiche sembra la
più tranquilla.