Standart. Reportage dalla prima triennale d’Armenia

Artribune

5 agosto 2017

A fine luglio siamo stati in Armenia, per seguire la prima edizione di Standart, triennale in terra armena curata da Adelina Cüberyan von Fürstenberg. Una doppia coppia di mostre segna la prima tappa di questa nuova rassegna internazionale. Mentre a settembre inaugurerà la seconda tranche. Qui vi raccontiamo cosa è successo nella capitale Yerevan, mentre domani ci sposteremo a Gyumri.

Terra di contrasti, l’Armenia; popolo funestato da una storia che si è accanita, ma composto da persone intraprendenti e al tempo stesso votate alla poesia e alla mistica. Molti sono quindi i tratti che lo accomuna al popolo ebraico, dal genocidio alla diaspora.
Vicina politicamente all’Iran e alla Russia – pullulano le t-shirt col faccione di Putin – l’Armenia ospita, sulla strada che dall’aeroporto conduce alla capitale Yerevan, la più grande ambasciata statunitense dell’area caucasica: un enorme compound, con gigantesche antenne satellitari che svettano sui tetti. Ma i contrasti appaiono ancora prima, quando ci si appresta ad atterrare: quel monte magico, quella montagna sacra (qui, secondo la leggenda, approdò l’Arca di Noè) coperta da ghiacci perenni è l’Ararat, il simbolo dell’Armenia insieme al melograno. Ma dal 1921 i 5.137 metri del monte sono in territorio turco, e per di più l’odiato vicino – odiato a ragione: i “giovani turchi” sono i mandanti politici di una strage che ha causato un milione e mezzo di morti, con buona pace per quella corrente del PD che ha scelto di appellarsi in tal modo – l’ha classificato come zona militare: nessuno può salirci e nemmeno avvicinarsi.
Qualche tempo fa, il governo Erdogan ha preteso che l’Armenia la smettesse di utilizzarlo in ogni dove; la risposta è stata: “Se i simboli geografici sono di proprietà di chi li possiede sul proprio territorio, allora togliete la Luna dalla vostra bandiera”. Uno a zero, palla al centro.

Nella capitale del Paese si è da poco inaugurata la prima sezione della prima parte di una nuova triennale. Si chiama Standart e si svolge in due tappe: a luglio hanno aperto le mostre di Yerevan e Gyumri, a settembre ci sarà un intervento urbano a Yerevan a opera di Felice Varini e una mostra sul Lago Sevan. A fare da trait d’union, i progetti presentati a Yerevan, Gyumri e Kapan dai vincitori della prima Open Call for Artists, promossa dall’Armenia Art Foundation con la cura di Sona Stepanyan: il collettivo Artlabyerevan, Ayreen Anastas & Rene Gabri, Arman Grigoryan, Piruza Khalapyan, Gohar Smoyan e Mika Vatinyan.
La curatela di questa prima edizione è stata affidata ad Adelina Cüberyan von Fürstenberg, coadiuvata da Ruben Arevshatyan. Un’operazione lineare, che punta a capitalizzare il premio per il miglior Padiglione nazionale vinto dall’Armenia alla Biennale di Venezia 2015, grazie alla mostra Armenity curata proprio da Adelina von Fürstenberg. A sostenere il progetto, un collettivo di soggetti capitanati dall’AAC – Armenian Artes Council e composto – per citare i principali – dal Ministero della Cultura, da Art for the World, dall’Ambasciata Svizzera e dall’Armenia Art Foundation.
Il titolo, o sarebbe meglio dire il tema, è The Mount Analogue. A Contemporary Art Experience. Il riferimento è al romanzo “iniziatico” e incompiuto di René Daumal (1908-1944), intellettuale francese che nella sua breve vita ha attraversato i territori più diversi, dal Surrealismo (in accesa polemica con André Breton) con il gruppo Le Grand Jeu alla cultura indiana e buddhista, fino ad avvicinarsi agli insegnamenti di Georges Ivanovič Gurdjeff, mistico nato a Gyumri nel 1866. Quanto alla connotazione “esperienziale”, è relativa al processo con cui sono nate le opere, di cui vi parleremo nel secondo articolo dedicato a questa triennale.

Legittimamente, le due mostre presentate a Yerevan sono più istituzionali e fungono da biglietto da visita per la rassegna.
Ad aprire la triennale è la retrospettiva dedicata a Gaspar Gasparian (San Paolo, 1899-1966), fotografo modernista brasiliano con chiare origini armene. Curata da Ruben Arevshatyan e ospitata all’AGBU (organizzazione non profit il cui acronimo sta per Armenian General Benevolent Union), Distant Fragments (1941-1959) è allestita negli spazi di quello che, dal 1906 al 2000, era il Parlamento. Si tratta della prima mostra di tale portata in terra armena ed effettivamente si ha qui l’occasione di apprezzare in maniera compiuta l’opera di un artista che ha recepito in maniera autonoma e creativa le sperimentazioni in campo fotografico operate soprattutto in Europa e in Russia negli Anni Venti del secolo scorso. Le sperimentazioni formali sono mature e a Yerevan risuonano ancora più compiutamente quando si calano nell’architettura e negli spazi urbani, con tagli di luce e inquadrature che creano prospettive e punti di vista inattesi.
Funzionano particolarmente nella capitale armena perché, al di fuori di queste sale, c’è una città che è architettonicamente e urbanisticamente complessa, erede – talora suo malgrado – di una stratificazione che la percorre nel tempo e nello spazio. Senza risalire troppo indietro, basta tornare agli Anni Venti-Quaranta del XX secolo, quando la città fu radicalmente ridisegnata dai sovietici per una popolazione di 200mila abitanti.
Se lo sventramento hausmanniano è palese, e ci si duole della perdita di gran parte degli edifici Liberty precedenti, è tuttavia interessante notare come qui non si sia al cospetto della monumentalità neoclassica che imperava a Mosca o Leningrado: merito dell’architetto Alexander Tamanian, che molto ha lavorato in quegli anni a San Pietroburgo, ma che nella sua terra – era armeno di origini – ha unito con originalità il neoclassicismo sovietico a elementi locali (in primis l’utilizzo del basalto nero, di cui l’Armenia è ricchissima) e passioni individuali (soprattutto Palladio, e così si spiegano certe prospettive ottiche favorite da finestre dotate di intelligenti strombature).
Soltanto negli Anni Settanta sorgono i quartieri periferici, con enormi palazzi-alveari: l’obiettivo è raggiungere il milione di abitanti, soglia necessaria per poter costruire una metropolitana – e la capitale di una delle repubbliche dell’Urss non può non averla. Anche in questo caso, tuttavia, si tratta di un brutalismo talora declinato con sagacia nel colore locale: lo dimostrano le gigantesche vele in cemento dell’Arena Demircian, opera inaugurata nel 1983 sulla collina Tsitsernakaberd, la medesima che ospita lo Dzidzernagapert, il dignitoso memoriale del genocidio, inaugurato nel 1967, e il relativo museo ipogeo, aperto nel 1995.

Ilya & Emilia Kabakov (Dnipro, 1933 e Dnepropetrovsk, 1945) sono invece i protagonisti all’Hay-Art Cultural Center, l’ex museo d’arte moderna cittadino. Un luogo, ancora una volta, che dimostra come l’Armenia fosse una “provincia” assai atipica della galassia sovietica: fondato da Henrik Igityan nel 1972, fu infatti il primo centro d’arte dell’Urss specializzato in arte moderna e contemporanea. E, per di più, fu progettato da due architetti modernisti come Jim Torosyan e Gevorg Aramyan, il secondo dei quali sarà uno dei protagonisti della mostra allestita a settembre sul Lago Sevan.
Due i lavori presentati dai Kabakov, con un adattamento ai luoghi che li rendono ancora vivi e vivaci: 20 Ways to get an Apple listening to the Music of Mozart (1997) e Concert for a Fly (1986). Il primo consiste in una grande tavola apparecchiata sui quattro lati. A sinistra di ogni piatto, un disegno; a destra, un testo. L’uno e l’altro, con mezzi differenti, spiegano venti differenti maniere per raggiungere la mela che sta al centro, in “una piccola enciclopedia di tutti i possibili modi con cui appropriarsene”. Il segno è quello degli anni d’oro della coppia, la capacità di sintesi anche, in un allestimento che – pur in assenza degli artisti, per motivi di salute – è ineccepibile.
A pochi metri di distanza, è ancora Mozart, grande passione di Ilya Kabakov, a essere protagonista: il Concerto per una mosca, infatti, è sì un’installazione composta da dodici postazioni che formano un cerchio, guardando verso l’interno, con sopra ogni leggio un testo e un disegno; ma è anche – nella sua versione effimera e performativa – un vero e proprio concerto; e a suonare Mozart sono i giovanissimi musicisti della Tchaikovsky Special Music School di Yerevan, a conferma di un’eccellenza indiscussa in Armenia per la musica classica. Come a dire: sono sì opere storiche, ma scelte con cognizione di causa e rispetto per il contesto.

– Marco Enrico Giacomelli