ANTONIA ARSLAN: ARMENI, CANCELLATI
La Provincia di Como
3 luglio 2011
Italia
Mi raccontava un amico alpinista, innamorato del monte Ararat,
che quella montagna sacra agli armeni, alla quale il governo di
Turchia, non contento di averla inglobata nel proprio territorio,
ha addirittura cambiato nome, custodisce molti segreti di cui il
turista occasionale non ha alcun sospetto. Aggirandosi per le erte
valli e i ghiacciai dell’enorme massiccio montuoso, al seguito dei
pastori curdi che con le loro pecore vanno agli alti pascoli estivi,
un po’ alla volta ha conquistato la loro amicizia e confidenza. E
alla fine, senza parlarne apertamente, lo hanno portato a vedere le
ultime tracce dell’antichissima presenza armena, che – come è noto –
fu completamente cancellata in pochi mesi, nell’estate del 1915. Lo
hanno portato nei villaggi abbandonati, davanti ai poveri resti
delle umili chiese, con le tracce del fuoco che le ha divorate ancora
visibili sulle pareti superstiti, con le croci graffite sui muri a
testimoniare una religiosita millenaria. Nessuna famiglia curda ha
mai più cercato rifugio in quei luoghi abitati da troppi fantasmi.
Gli hanno mostrato, nelle loro case, pochi sparuti oggetti ritrovati:
semplici ciotole di terracotta decorate con piccole croci, i pesi di
una bilancia, qualche ingenuo tappeto con la data e una dedica in
lettere armene. E infine lo hanno portato alle fosse comuni, dove
giacciono confuse le ossa degli abitanti delle valli dell’Ararat
massacrati in pochi giorni furiosi, che i pastori curdi, pur sapendo
bene di fare cosa proibita, hanno contrassegnato in segno di pieta
con pietre allineate, a simbolo e memoria di tutte quelle innocenti
creature annientate e dimenticate.
Sulla montagna, la vita errabonda dei pochi pastori, la neve e
il ghiaccio hanno conservato un po’ meglio le tracce del popolo
scomparso; ma sorprendentemente, nonostante l’accuratissima, ossessiva
cancellazione di ogni resto della civilta e della cultura armene
(parla da solo un semplice dato: di circa 1500 chiese esistenti
nel 1915, oggi ne restano pochissime, quasi tutte in rovina), in
tutto l’immenso territorio anatolico ribollono – sotto la superficie
uniformemente turchizzata – indizi memoriali, esili tracce, l’eco
sottile di tradizioni perdute. Sono passati novantasei anni, ma la
ferita della strage compiuta sanguina come se fosse appena avvenuta;
e ciò che soprattutto pesa, nelle relazioni fra i due popoli e i due
Stati, Turchia e Armenia, è l’ambiguo silenzio, il riduttivismo o
l’esplicito negazionismo che nella repubblica di Turchia circonda
ogni menzione della tragedia. E invece, come da un sottile manto
di terra e di sassi affiorano quelle ossa frettolosamente nascoste
nei crepacci dell’Ararat, così dovunque, sotto la terra d’Anatolia,
giacciono i ricordi, sopravvive ancora la memoria di un popolo che
qui ha avuto la sua patria per migliaia di anni.
Le scoperte imbarazzanti delle caverne sigillate che contengono
scheletri accusatori (ne è riemersa una a Mardin il 17 ottobre 2006,
immediatamente messa sotto sequestro dai militari), le pietre disperse
– ma riconoscibilissime – delle centinaia di chiese che sono servite
da cave di materiale da costruzione, l’eco delle campane ridotte al
silenzio e del lamento lugubre delle turbe affamate che percorsero
a piedi le grandi pianure nell’estate rovente del 1915, tutto questo
continua a ossessionare sia i discendenti dei sopravvissuti armeni sia
gli abitanti della Turchia attuale. I quali sanno benissimo quello
che è successo nel 1915 e negli anni seguenti, fino all’incendio di
Smirne del settembre 1922 e al definitivo scambio di popolazioni
che ne seguì. Ma scriverne – e parlarne in pubblico – è proibito,
è addirittura contro la legge.
*** Perche non riesce alla Turchia, dopo quasi cent’anni, di fare i
conti col suo passato attraverso un serio atto di contrizione, come la
Germania dopo il 1945? Gli attori del dramma sono ormai tutti morti,
il governo attuale non ha nessuna responsabilita, ovviamente. Perche
allora continuare a negare, mi si chiede spesso, e in modo così
ossessivo, così ridicolo? È una questione di orgoglio nazionale, come
se un passato oscuramente colpevole potesse stingere sull’onorabilita
del presente della nazione? Per riuscire a comprendere qualche cosa di
questo vulnus fortissimo, che colpisce contemporaneamente la memoria
collettiva degli armeni e la percezione di se dei turchi, bisogna prima
di tutto ricordare che i due popoli non sono sempre stati nemici: anzi,
hanno dietro di se una convivenza secolare sotto l’impero ottomano.
La minoranza armena era considerata fedele, anzi, la più fedele
(sadyka), nel sistema dei millet che governava l’impero. I due popoli
convivevano, in un mosaico di relazioni certo non sempre pacifiche,
ma non prive di una certa tolleranza, alla luce di una circospetta
convenienza reciproca. Turchi e armeni (nonche le altre minoranze:
greci, ebrei e assiri o siriaci) si dividevano aree di competenza e
zone di residenza: nessun turco si sarebbe dato la pena, per esempio,
di fare l’interprete o il gioielliere, nessun armeno di tentare la
carriera militare. Certi mestieri erano esercitati esclusivamente da
un popolo: durante la persecuzione alcuni orologiai armeni si salvarono
per questo. Nelle campagne, un villaggio era armeno, con la chiesa, le
croci, il campanile, quello vicino turco, col suo bravo minareto; e nel
villaggio armeno spesso l’unico turco era il gendarme, lo zaptie. Come
è noto, fu il governo nazionalista dei Giovani Turchi che scatenò
il genocidio all’inizio del 1915, subito dopo l’entrata dell’impero
nella guerra mondiale. Ma è dopo la sconfitta, negli anni agitati del
dopoguerra, che si delinea per gli armeni l’impossibilita del ritorno.
*** Kemal fece tabula rasa di tutto ciò che lo aveva preceduto, e
il suo Stato laico e occidentalizzante fu costruito sulla rimozione
della tradizione imperiale. I legami col passato furono recisi,
a cominciare dalla lingua, epurata, e dall’alfabeto, divenuto
quello latino; l’identita nazionale venne costruita identificando
il cittadino di Turchia coll’etnia turca. Delle minoranze cristiane,
gia quasi scomparse, rimaneva no sparuti gruppi in via di estinzione;
della minoranza curda si tentò l’assimilazione (perfino nel nome:
vennero ribattezzati “turchi della montagna”). Ma questo è un altro
discorso, anche se purtroppo ancora attualissimo.
*** Negli ultimi anni tuttavia la situazione sta cambiando, in modo
lento ma costante. La battaglia si svolge all’interno della Turchia,
senza esclusione di colpi, a volte in piena luce, ma molto più spesso
in modi cifrati e tenuti sottotraccia; e la stampa occidentale non
sembra percepirne tutta l’estensione. Si cita Orhan Pamuk, il premio
Nobel che è stato processato per aver dichiarato a un giornale svizzero
che nel 1915 erano morti “almeno un milione di armeni”; si è scritto
molto, ovviamente, sull’assassinio del giornalista turco-armeno Hrant
Dink nel gennaio 2007. Ma le correnti revisioniste sotterranee che
attraversano la societa turca restano in gran parte sconosciute, e
così i modi della reazione dell’establishment – non solo a Istanbul o
Ankara, ma nel resto dell’immensa Anatolia – nel suo nervoso, ossessivo
aggrapparsi, spesso con esiti infelici, alla vulgata ufficiale. La
“questione armena”, riemersa negli ultimi anni con grave fastidio
dei governanti, è così diventata una vera cartina di tornasole per
misurare il livello dei diritti civili nel Paese e per affrontare le
oscure memorie del 1915. Una mostra di cartoline postali di prima del
genocidio, scritte in armeno e raccolte con pazienza per molti anni,
ha avuto un tale successo a Istanbul che è stata prolungata per mesi,
dagli iniziali quindici giorni previsti. Nel libro Anneannem (in
italiano Heranush mia nonna, 2007), Fethiye Èetin, un’avvocata molto
nota di Istanbul, racconta di come ha scoperto che sua nonna era una
delle bambine armene rapite dalle carovane dei deportati, convertite
a forza e inserite in famiglie turche (venivano chiamate “i resti
della spada”…). Se ne sono fatte sette edizioni in pochi mesi. E
si comincia a sollevare il velo che copre altri gruppi di cittadini
di etnia armena che furono convertiti a forza, ma che ancora oggi
ricordano – in segreto – le loro origini e qualche preghiera cristiana.
*** Che dire, in conclusione? Forse l’Armenia non si liberera
mai dell’incubo turco, e del peso del ricordo straziante della
terribile ingiustizia subita; ma neppure la Turchia può ormai
credere di liberarsi facilmente del fantasma armeno. Eppure, io sono
convinta che la verita a volte procede per vie carsiche ma sicure;
e progredisce con lentezza, per riemergere poi improvvisamente in una
luce abbagliante. Sul Los Angeles Times è uscito, il 23 aprile scorso,
un paginone pubblicitario che invita a vacanze in Turchia. La data
non è casuale, è il giorno prima del 24: e la comunita armena in
California conta 780.000 persone. Ma anche l’immagine scelta non è
casuale: una Madonna col Bambino, ieratica ma sorridente, scoperta in
un monastero di Cappadocia. Il ministro della Cultura e Turismo turco,
Ertuðrul Gunay, ha detto che questo cattivante affresco “rappresentera
la Turchia all’estero”. E negli ultimi mesi sono cominciati i restauri
del sito di Ani, l’antica capitale d’Armenia, abbandonata da secoli.
Possono certamente essere mezzucci, astuti inganni mediorientali;
ma siccome le vie del Signore sono infinite, forse la strada
apparentemente marginale del turismo riuscira a scalfire davvero il
granitico negazionismo di Stato che ancora pesa sull’anima turca.
( © Vita e Pensiero – Antonia Arslan, scrittrice, è l’autrice di
“La masseria delle allodole”, che tratta del genocidio armeno. Nel
2007 i fratelli Taviani ne hanno tratto il film omonimo)
http://www.laprovinciadicomo.it/stories/Homepage/216627_antonia_arslan_armeni_cancellati/